Attualità 06:30

Con Caritas e Rindertimi, anche ad Avezzano il servizio di ospitalità residenziale temporanea per i rifugiati

All’indomani della tragedia nel Canale di Sicilia, parla di migrazione Gino Milano, presidente del Centro Servizi di Volontariato della Provincia e responsabile di Rindertimi


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AVEZZANO. Dopo l’ecatombe nel Canale di Sicilia, mentre si cercano di recuperare i corpi delle vittime e si ascoltano le agghiaccianti testimonianze di sopravvissuti che parlano di 950 persone presenti sulla barca, molte delle quali rinchiuse nella stiva, pubblichiamo, di seguito, le riflessioni sul tema dell’immigrazione scritte da Gino Milano, presidente del Centro Servizi di Volontariato della Provincia dell’Aquila e responsabile dell’Associazione Rindertimi.

 

 

Sull’esperienza del servizio di accoglienza profughi

 

Immigrazione è una parola diventata stanca e stancante.

Le migrazioni sono un fenomeno che cresce a dismisura, trasformandosi in un problema quasi irrisolvibile.

Dal 2011 le coste e i porti della Sicilia, della Calabria, della Puglia e della Campania - oltre alla “simbolica” Lampedusa - hanno visto arrivare un sempre più considerevole flusso di migranti “forzati”, molti dei quali provenienti dall’Africa sub Sahariana, in transito nei territori in tumulto della Libia, oppure in arrivo da altri contesti di miseria, di guerra e di conflitti etnici, di origine dal medio o dal più lontano Oriente.

I migranti stanno diventando un incubo, soprattutto a seguito di quanto si è verificato nei Paesi del Nord Africa dopo i segnali di speranza che erano spuntati dalle “primavere arabe”.

 

In questo Mediterraneo esposto a tempeste non solo metereologiche continuano a consumarsi i drammi dei migranti nelle loro “carrette del mare”, oggi non più protetti per quanto possibile dal programma italiano “Mare nostrum”, sostituito dall’insufficiente operazione “Triton” promossa dalla Ue. Per maggio prossimo è previsto un pacchetto di misure con quattro priorità: il miglioramento dei sistemi europei d’asilo; il rafforzamento dell’Agenzia “Frontex”; l’apertura di nuovi canali di migrazione legale; il potenziamento del contrasto all’immigrazione illegale e alle reti criminali dei trafficanti di carne umana, che la alimentano.

Nel Mediterraneo, insomma, è oggi in corso un’importante storia dalla quale dipende buona parte del futuro dell’Europa, della sua cultura e delle sue civiltà, non soltanto tra le sponde Sud e Nord del mare, bensì tra il Nord e il Sud del Vecchio Continente. Un Mediterraneo non solo “porta” ma anche “prova” d’Europa!

“Milioni di individui e famiglie in fuga dalle proprie case cercano salvezza e futuro proprio nell’Europa del diritto e della democrazia” ha ricordato Sergio Mattarella nel suo primo discorso da Presidente della Repubblica Italiana, ed ha continuato: “è questa un’emergenza umanitaria, grave e dolorosa che deve vedere l’Unione Europea più attenta, impegnata e solidale”.

 

Richiedenti asilo e rifugiati: chi sono?

Secondo la Convenzione di Ginevra del 1951 e la Normativa dell’Unione Europea, recepita dall’Italia, hanno diritto all’asilo le persone costrette a fuggire dal proprio Paese perché perseguitate per motivi di razza, religione, gruppo sociale o politico, o a causa di guerre, situazioni di violenza generalizzata e catastrofi naturali. Non sono quindi partite di propria volontà e hanno (avrebbero!) diritto al meglio di ciò che i Paesi ricchi, fra i quali il nostro, possono offrire. Il termine comune di “rifugiato” comprende tre forme di accoglienza a protezione decrescente: lo status di rifugiato vero e proprio, la protezione sussidiaria e quella umanitaria.

In questa storia si è innestata la scelta dell’Ufficio Pastorale Diocesano di Caritas-Migrantes (che ha raccolto l’appello della Chiesa italiana a promuovere forme di accoglienza per i profughi) e dell’Associazione Rindertimi (che da vent’anni svolge un servizio di prossimità ed attività interculturali a favore degli stranieri) di portare anche in Avezzano il servizio di ospitalità residenziale temporanea dei rifugiati, in risposta al bando emesso dalla Prefettura di L’Aquila.

Ne è nato un progetto di “fraternità” - in molti momenti condivisa unitariamente da Caritas-Migrantes e Rindertimi - come tentativo e desiderio di un’esperienza di vera (seppur temporanea) inclusione, capace di andare oltre gli aspetti economici, l’assistenzialismo, il paternalismo e gli interventi di emergenza in cui l’Italia è specialista o, addirittura, tollerante verso forme predatorie e sfruttatrici (come sembrano dimostrare alcuni recenti episodi di “Mafia Capitale”).

 

Ora, mentre volge al termine questo tempo di accoglienza e di ospitalità dei gruppi di persone provenienti dal Bangladesh, dal Senegal e dal Ghana, si è ritenuto di tirare alcune conclusioni, esprimere qualche riflessione, raccogliere aspetti e profili dell’esperienza vissuta, proporsi domande – talvolta inquietanti – che restano ancora e sempre aperte, complesse e confuse. E provare a fare una narrazione di un “servizio di fraternità”, abbondante di passione e di sensibilità, seppure con infiniti interrogativi e impegni irrisolti. Per aiutarci tutti a capire cosa oggi stia accadendo nella storia dell’umanità e nel pensiero umano; per dare voce anche alle positività e alle tantissime storie di normalità, sovente oscurate da un rifiuto istintivo e da un odio sostenuto da un certo sistema mediatico.

 

Una bella pagina è stata scritta nella città di Avezzano, con tante persone che sono state vicine, attente e talvolta inquietate dalla presenza dei profughi: i vicini di casa e di quartiere, parrocchie, associazioni, il Comune, il complesso di famiglie, gli altri stranieri. Loro - provenienti da tragedie sconosciute, approdati in modo spesso rocambolesco, sospesi nei loro diritti quasi fossero confinati in un limbo giuridico, come soggetti sociali invisibili - hanno vissuto accanto a noi, percorso le nostre strade cercando, come tutti, momenti di vita migliore.

Sono venuti con i loro sogni e le loro paure – il diritto di asilo, in fondo, è anzitutto diritto di sognare, di fabbricare sogni, (anche se molti di essi potranno essere demoliti): perché il sole sorge sempre e può far ricominciare a vivere.

 

Durante questi otto mesi di ospitalità si è provato a rimuovere le condizioni di abbandono in cui versano alcuni mega-centri di accoglienza dove i rifugiati vengono “parcheggiati come pacchi” per mesi in condizioni di sfruttamento e arricchimento da parte di soggetti che hanno fatto dell’ospitalità un business sulla pelle dei richiedenti asilo o di altri migranti lavoratori.

Accogliere è significato offrire vicinanza (anche qualificata sotto il profilo psicologico e linguistico), informazione e formazione in attesa degli esiti delle deliberazioni che le Istituzioni avrebbero preso nei loro confronti (cosa che si sta perfezionando in questi giorni), ma anche per decidere se inserirsi in questa società, di farne parte da uomini liberi o di ritornare ai paesi di origine o andare altrove.

 

Percepiscono 2,50 euro al giorno, ricompresi nei circa trenta euro che mediamente per ciascuno di loro l’Europa (e non le finanze nazionali, dalle quali nulla viene sottratto dai profughi in stato di ospitalità) destina ogni giorno per un tempo limitato e per motivi umanitari. Servono per l’abbigliamento, il vitto e l’alloggio, l’assicurazione, le cure mediche ed altri sussidi vari.

Dopo la prima accoglienza si è cercato il dialogo con tanti soggetti e diverse associazioni. Si è cercata la loro implicazione in parecchie iniziative ludiche, culturali e sociali, e il loro coinvolgimento in piccoli lavori di utilità sociale che i profughi stessi hanno chiesto di svolgere. La scuola li tiene impegnati quotidianamente per la comprensione della lingua e della storia italiana. Guardando al loro vissuto, approdati in un Paese in crisi economica, si stupiscono di fronte al giovane italiano che vede il suo futuro all’estero. Talvolta, a causa delle notizie poco incoraggianti che arrivano dalle loro città di origine, traspare dai loro occhi un po’ lucidi il dramma che si portano dentro, mentre sono seduti sulle scale delle associazioni o passeggiano nelle vie di Avezzano.

 

Abbiamo sempre prestato attenzione, attraverso relazioni fondate sulla franchezza e sulla verità, a non ingannare gli ospiti su cosa potesse loro succedere il giorno dopo o il mese successivo. Perché accogliere non significa abbandonare chi arriva in balia delle istituzioni, con le loro certezze e le evidenti carenze amministrative; né consiste nell’aprire le frontiere lasciando che ognuno si arrangi spingendolo, di fatto, ad un’invisibilità clandestina, oppure a un inevitabile sfruttamento lavorativo o sessuale, all’illegalità.

Di certo rimane forte la sensazione di impotenza, di irragionevolezza costruttiva e di quasi inutilità del sistema di ospitalità offerto ai rifugiati nel breve lasso di tempo di permanenza in associazione, tra difficoltà pratiche, una diffusa e generale mentalità di sospetto, la vacuità di orizzonti, la mancanza di precise linee di futuro per le persone accolte: in definitiva, una troppo flebile capacità di produrre un’effettiva, stabile integrazione.

 

Restano alcune esigenze:

1. Non basta tutelare il singolo individuo, ma agire per costruirgli intorno un ambiente collettivo, una comunità (chi viene da un altro Paese è privo di tutto ed ha bisogno dell’impegno di cittadini responsabili verso la sua “umanità”).

2. Non basta aggiungere un posto a tavola, ma bisognerebbe saper cambiare per “l’altro” qualcosa della propria vita, del proprio tempo, del proprio spazio.

3. Non si esce da una mentalità corrente se continuiamo a ragionare tra noi come agenzie che offrono aiuto. Dovremmo, invece, cercare di andare oltre i copioni già scritti – fatti di bisogni ai quali dover rispondere, molte volte, alla meno peggio, registrando sovente sonore sconfitte – e saper trarre dalle vicende vissute nuovi patti sociali e di relazionalità: solo a questo scopo tutti gli sforzi attivabili potranno funzionare.

4. Non solo lo Stato e gli Enti locali devono intervenire con maggiore consapevolezza, ma anche la società civile può far molto – attraverso i rapporti di vicinanza con i gruppi di rifugiati – per costruire una società più integrante e attenta ai cambiamenti della storia dei popoli e dei territori. È un problema di responsabilità che negli anni futuri coinvolgerà tutti sempre di più.

5. Procedere per bandi (come accade oggi per convenzionare contratti di accoglienza tra Prefetture e organizzazioni deputate all’accoglienza) non ha mai permesso di creare un sistema. Resta, però, da valutare anche la sostenibilità degli interventi, specie in tempi di crisi come quelli attuali, cercando di gestire con equità i fondi disponibili per le spese necessarie all’ospitalità dei profughi, ed evitare istintive comparazioni con il trattamento riservato a famiglie italiane con redditi bassi, o a condizioni di indigenza più diffuse tra italiani: il rischio è quello di favorire forme di discriminazione al contrario, ovvero la classica “lotta tra poveri”.

 

La vicenda di questi ospiti stranieri, richiedenti asilo, è uno straordinario richiamo a immettere un’impronta di gratuità (elemento costitutivo del volontariato) e di rapporto interpersonale (altro elemento che caratterizza l’agire delle associazioni di volontariato) nelle varie relazioni tutelate dal diritto. Il burocratismo, l’anonimato, il legalismo, sono pericoli che insidiano le nostre società, in cui sovente ci si dimentica che dietro ogni servizio sociale ci sono persone, volti umani, storie dell’unica umanità alla quale tutti apparteniamo in solido.

 

La presenza dei profughi stranieri è memoria attuale e lezione per la vita di tutti noi.

Quando Albert Einstein giunse negli Stati Uniti, dovette compilare un formulario per l’immigrazione. Alla voce “Razza” scrisse “Umana”.

Quella lezione di civiltà è passata alla storia, ma non sempre “la storia è maestra di vita”.