Attualità 08:30

Riflettendo sull'immigrazione con il professor Valletta

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Di seguito le riflessioni sull'immigrazione del professor Sandro Valletta, docente in Diritto delle migrazioni:

 

Immigrazione: serve un modello italo-abruzzese?...

 

A. Nell’ Enciclica Caritas in Veritate (al n. 62) Benedetto XVI ricorda che la questione della

immigrazione pone “sfide drammatiche”, non tollera soluzioni sbrigative e presenta una notevole

complessità di gestione; quindi fornisce tre indicazioni:

 

1. anzitutto richiama l’attenzione sui “diritti delle persone e delle famiglie immigrate”; ciò vuol dire

che il migrante va trattato come una Persona e non come una merce;

 

2. contestualmente ricorda la necessità di tutelare i diritti “delle società di approdo degli stessi

emigrati”, senza limitare tali diritti alla sola sicurezza, ma estendendoli alla identità e alla integrità

nazionale;

 

3. infine, richiama i diritti delle società di partenza degli emigrati, perché non siano depauperate

delle risorse necessarie per lo sviluppo. Questo avendo come obiettivo ultimo “che non ci sia più

bisogno di emigrare, perché ci sono in Patria posti di lavoro sufficienti, un tessuto sociale sufficiente” (intervista del Pontefice durante il volo per gli USA, 15 aprile 2008).

 

Due differenti posizioni violano questi principi: la xenofobia nega il primo, sia nella sua versione

rozza di chi ritiene lo straniero per definizione un essere inferiore, sia in quella meno esplicita di chi

sfrutta l’immigrato o facendolo lavorare in nero o, comunque, remunerandolo di meno rispetto agli

altri lavoratori oppure utilizzandolo per manovalanza criminale. È ovvio che solo il rispetto integrale della Persona, qualunque sia la lingua, l’etnia, la provenienza, l’età, costituisce l’antidoto a ogni intentio discriminatoria. Il secondo e il terzo principio sono avversati da quell’orientamento ideologico che il politologo francese Pierre-André Taguieff definisce immigrazionismo. Secondo tale posizione l’immigrazione è sempre culturalmente buona ed economicamente vantaggiosa, e chi osa manifestare dubbi in proposito è immediatamente bollato come xenofobo, se non proprio razzista. Non è detto che la xenofobia sia sempre “di destra”: ci sono fasce della sinistra, soprattutto nel mondo sindacale, la cui ostilità per la concorrenza degli immigrati sul mercato del lavoro talora

sconfina in essa. Né è detto che l’immigrazionismo sia sempre “di sinistra”, come informano le cronache quotidiane, anche in Italia. Certo, l’immigrazionista “di destra” è convinto che se l’immigrato viola la legge va sanzionato; ma il quesito da porsi non riguarda il rispetto del limite posto dalla norma penale.  Esso è più profondo e impegnativo: un immigrato che non fa il terrorista né spaccia droga, ma vive e pensa nel nostro Paese secondo principi contrastanti con quelli che sono alla base della nostra civiltà, è o non è un problema? Rimuovere il problema fa aumentare l’entità dello stesso e fa crescere il rischio che la doverosa contrapposizione alla xenofobia degeneri nel relativismo culturale: cioè in quell’atteggiamento per il quale chiunque arrivi in Italia può – in nome del multiculturalismo – comportarsi come meglio crede, col solo remoto limite dell’ordine pubblico. E’ una posizione inaccettabile: le culture vanno giudicate in base alla possibilità che esse hanno di difendere integralmente i diritti della persona e il bene comune; ad esempio, una cultura fondata sul rispetto della donna non può ritenersi equivalente a una cultura che invece lo nega, permettendo di fatto la poligamia o l’esercizio di una giurisdizione domestica che viola la più elementare dignità della persona.L’Abruzzo è una Regione che affronta la questione immigrazione da un tempo relativamente recente: appena quindici anni. Per questo, dopo aver superato una serie di emergenze (da ultima, quella dell’Accoglienza ai profughi), oggi è in condizione di giocare la partita dell’integrazione puntando alla elaborazione di un proprio “modello”, che faccia tesoro anche delle esperienze delle altre Regioni e tenga conto della propria identità. Scopo di questa Riflessione è offrire spunti, non soltanto teorici, in tale direzione, muovendo attraverso differenti – ma non contrastanti – sensibilità di impostazione culturale e di settore; il tutto, però, partendo dalla eliminazione di una serie di luoghi comuni che, al di là delle buone intenzioni, rischiano di pregiudicare un percorso serio. Giova passarli in rassegna, se non altro per evitarli.

 

1° luogo comune: si dice: in Europa gli immigrati sono una minoranza, e ciò deve far mettere da

parte gli allarmismi. In Italia, in particolare, gli immigrati sono meno del 10% della popolazione, in

linea con la tendenza europea, che vede presenti circa 50 milioni di immigrati rispetto ai 500 milioni di cittadini dell’UE. Il limite di questo ragionamento, tendenzialmente rassicurante, è che si osserva il fenomeno come se fosse raffigurabile attraverso le fotografie, quando invece esso è un film. Solo il filmato permette di cogliere il punto di avvio, la tappa alla quale ci si trova, la velocità di marcia e, quindi, fa proiettare la dimensione quantitativa da oggi a 10, 20, 50 anni. Alla data del 30 novembre 2014 (ultimo dato disponibile) le persone extracomunitarie presenti in modo regolare nel territorio italiano erano 3.675.417 (di cui 4.204 titolari di carta di soggiorno per familiare di cittadino UE, 986.300 titolari di permesso di soggiorno per lungo periodo, 626.908 minori infraquattordicenni iscritti sul titolo del genitore/ affidatario, 3.048.509 stranieri titolari di permesso di soggiorno valido); questo dato è al netto di coloro che nel frattempo sono diventati cittadini comunitari, a seguito dell’ingresso nell’UE dei Paesi da cui provenivano (per i quali non si può più fare riferimento al censimento basato sul permesso di soggiorno), e dei regolarizzandi in base all’ultimo provvedimento: alla ricerca di un termine di confronto complessivo omogeneo, la somma con tali voci renderebbe il totale dei residenti regolari di provenienza straniera pari a circa 4.500.000 persone. Nel 1990 gli immigrati regolarmente soggiornanti sul territorio nazionale erano 548.193 (di cui 108.544 cittadini comunitari e 439.649 extracomunitari), nel 1995 erano 707.366 (122.890 comunitari e 584.476 extracomunitari), nel 2000 erano 1.388.153 (151.799 comunitari e 1.236.354 cittadini extracomunitari), nel 2005 erano 2.271.680 (di cui 229.530 comunitari e 2.042.150 extracomunitari): dunque, nel 2014 si è arrivati a circa 10 volte le presenze del 1990. Seguendo i ritmi degli ultimi vent’anni, in Italia gli immigrati regolari arriverebbero a 12 milioni nel 2030 e a 20 milioni nel 2050. Il film non costituirebbe una novità: la Svezia ha 9 milioni di residenti e 1,5 milioni di immigrati, l’Olanda 13 milioni di residenti e 3 milioni di extracomunitari. L’entità e la consistenza di queste proporzioni, peraltro in crescita, non permettono la realizzazione di una integrazione degna di questo nome: una integrazione effettiva, non meramente declamata, ha bisogno di gradualità e di possibilità di inserimento sociale e lavorativo reale.

 

2° luogo comune: accogliere quanti più immigrati possibile corrisponde a una istanza etica,

collegata, fra l’altro, alla esigenza di fornire un doveroso contributo contro la fame e il sottosviluppo e a un vago solidarismo buonista. In proposito, è lecito chiedersi: in base a quali elementi per noi sarebbe meno oneroso e per il Terzo Mondo sarebbe preferibile trasferire in Europa milioni di extracomunitari piuttosto che sostenerli nei Paesi d’origine? Chi sottolinea positivamente la presenza fra gli immigrati di ottimi ingegneri, di bravi informatici, di medici e di infermieri capaci non riflette a sufficienza sul costo per le zone di provenienza rappresentato dall’impoverimento delle loro risorse umane. Il valente medico arrivato da uno Stato del Centro Africa non è indispensabile per i sistemi sanitari europei, lo è invece nel Ruanda o nel Ghana. All’istanza etica ci si richiama per fondare un riconoscimento ampio del diritto di asilo. L’Italia da questo punto di vista vive un paradosso: è una delle Nazioni che può vantare nel mondo, in assoluto e in proporzione alla popolazione residente, il numero più elevato di accoglimenti di domande di asilo e di protezione umanitaria, e al tempo stesso è quella in cui, grazie alle polemiche sollevate da un team politico, mediatico, di associazioni di settore e giudiziario, sembra che l’asilo sia quotidianamente denegato. Al netto delle polemiche, va detto con chiarezza che invocare lo status di rifugiato non può essere lo strumento per entrare senza permesso di soggiorno: non può affermarsi il principio secondo cui la protezione va riconosciuta – anche in assenza di persecuzione o di discriminazione – a chiunque provenga da un Paese non democratico o al cui interno vi siano sperequazioni economiche, cioè a chiunque arrivi da uno degli Stati del Terzo Mondo.

 

3° luogo comune: il decremento demografico fa sì che l’Abruzzo abbia bisogno di immigrati, anche per svolgere quei lavori che il residente non è più disponibile a fare. Ora, se è vero che il Vecchio Continente conosce da decenni un forte calo di nascite, c’è da chiedersi se la soluzione del problema consiste davvero nel far giungere immigrati senza limiti.

 

C’è qualche ragione per dubitarne:

a) gli extracomunitari, grazie ai loro salari bassi, mantengono in vita per un certo tempo, in ambiti

economici in crisi, posti che altrimenti non sarebbero in vita. Ma è semplicemente una questione di

tempo: prima o poi i posti di lavoro inesorabilmente scompaiono; in ampie aree della Regione la

difficile situazione industriale è dipesa non dal calo demografico, ma dai costi

minori dei prodotti cinesi. Alla fine, nonostante le paghe inferiori degli immigrati che lavorano da noi, tante aziende hanno egualmente chiuso i battenti, e nell’insieme probabilmente i costi riguardanti l’arrivo di nuovi immigrati hanno superato i benefici della loro presenza;

 

b) con alcune significative eccezioni (si pensi alla collaborazione domestica e alle c.d. badanti, molte delle quali però sono cittadine comunitarie), va detto che i lavori che nessuno desidera in realtà sono i lavori che il residente non vuole se il salario non è attraente. La questione non va vista dal lato dell’indisponibilità del lavoratore a determinati impieghi, bensì dal lato della disponibilità del datore di lavoro a occupare, talora in nero, extracomunitari che costano di meno e la conseguente alterazione del mercato del lavoro fa sì che in alcune Regioni aumenta la disoccupazione ma, al tempo stesso, cresce l’immigrazione e, quindi, l’occupazione in nero o con sottopaghe degli

extracomunitari.

 

4° luogo comune: sempre a causa del calo demografico, oggi ci sono pochi giovani e molti anziani,

con ripercussioni sulla tenuta del sistema pensionistico, rispetto al quale l’arrivo di nuovi lavoratori

da fuori i confini europei avrebbe l’effetto di incrementare la platea contributiva. Riprendiamo

l’analogia fra il fotogramma e il film: i giovani lavoratori immigrati di oggi crescono anche loro, e

prima o poi diventeranno anziani pensionati; peraltro il loro salario attuale, mediamente non

elevato, è accompagnato da versamenti contributivi egualmente bassi e così al futuro incremento

del numero dei pensionati non corrisponderà quello parallelo della quantità di contributi.

 

5° luogo comune: nutrire riserve per la positività di una immigrazione larga significa dimenticare la nostra emigrazione e riproporre, nei confronti di chi oggi viene in Italia, gli stessi pregiudizi e le

medesime ingiustizie che hanno subito i nostri antenati. Quest’argomento viene adoperato anche per

sollecitare percorsi più rapidi di ottenimento della cittadinanza. Il limite di questo ragionamento sta

nel sovrapporre periodi storici e dinamiche del tutto diverse: chi dall’Italia si trasferiva col piroscafo

nelle Americhe, o prendeva il treno con la valigia di cartone per i Paesi del Nord dell’Europa, in larga parte ci andava con la prospettiva di restarci. Chi oggi viene in Italia da aree meno sviluppate pensa di stabilirsi mediamente solo in un terzo dei casi: l’altro 70% si pone l’obiettivo di mettere da parte dei risparmi, di acquisire mestieri e/o professionalità, di far frequentare ai figli le nostre scuole, quindi di rientrare dopo un numero apprezzabile di anni nel Paese d’origine per far fruttare i risparmi e le conoscenze apprese.

 A che cosa serve a costoro la cittadinanza?

Chi di loro realmente la chiede o la desidera?

In tal senso va perseguita – e può costituire un pilastro del “modello italo-abruzzese” che andremo a sviluppare– una politica di reinserimento dei lavoratori immigrati nei Paesi di origine che punti a garantire nei fatti l’equilibrio tra la soddisfazione in modo flessibile del fabbisogno di mano d’opera dell’economia italiana e la necessità di nuove opportunità di lavoro dei Paesi di provenienza. Va costruita quella che potrebbe definirsi una “immigrazione rotazionale”, basandola su un doppio binario: percorsi di inserimento non virtuale di chi viene in Abruzzo e in Italia e percorsi di rientro incentivato nei luoghi di provenienza, tesi a collocare nel modo più adeguato e soddisfacente possibile chi ha maturato competenze e capacità di contribuire allo sviluppo del proprio Paese. Ciò richiede, in modo decisivo, il rafforzamento della cooperazione indirizzando le scelte sia delle istituzioni comunitarie, sia degli enti territoriali regionali, sia – per quanto si lascino coinvolgere – delle istituzioni degli Stati di provenienza. Tornando all’analogia con il passato, va ricordato che i nostri emigranti si recavano in contesti sociali, e in senso lato culturali, non opposti a quelli di provenienza, per lo meno quanto a confessione religiosa e a principi essenziali; ma una parte significativa degli attuali immigrati hanno riferimenti molto diversi dai nostri. E’ difficile negare il peso sociale della religione e i riflessi che essa esercita sullo spazio pubblico, anche solo nelle manifestazioni esterne: come in passato nessuno si scandalizzava se per le strade di New York i Collelonghesi portavano in processione S.Antonio Abate, oggi nessuno protesta se immigrati sudamericani portano le loro statue della Madonna in processione per le vie di qualche nostra citta’. I problemi sorgono, e le reazioni si attivano, se migliaia di musulmani pregano Allah davanti al Duomo di Milano, magari inserendo nelle preghiere invettive contro gli USA e Israele. E’ indubbio che, anche nelle comunità di immigrati, vi siano differenti gradazioni di islam e che processi di assimilazione siano possibili; ma è altrettanto indubbio che l’islam nel suo insieme ha delle specificità che negare le quali è ottusamente relativistico. Esse rendono difficile l’assimilazione dell’islam alla cultura europea per voci fondamentali quali il rapporto fra uomo e donna, fra religione e politica, fra fede e ragione, fra appartenenza confessionale e violenza.

Provare a liberarsi da questi luoghi comuni non vuol dire rinunciare a perseguire una posizione di equilibrio o, peggio, scadere in una sorta di criptorazzismo: significa semplicemente non farsi

illusioni. Il percorso è lungo e complicato; soprattutto, non tollera scorciatoie. Un esempio ne è quell’insieme di proposte che vanno nella direzione della cittadinanza breve. E’ una

scorciatoia pericolosa, perché scambia la fine con l’inizio: immagina la cittadinanza come uno

strumento di integrazione, e non invece – come noi dobbiamo sostenere che debba essere – come la parte conclusiva di un percorso di integrazione; la via formalmente e sostanzialmente corretta non può prescindere dalla scansione “permesso di soggiorno” (connesso a un lavoro regolare, valido fino a 2 anni, rinnovabile) – “carta di soggiorno” (che presuppone 5 anni di residenza, un lavoro e un alloggio secondo le norme dell’edilizia residenziale pubblica, assenza di seri pregiudizi penali, e che è valido senza necessità di rinnovo ed è revocabile solo se si commettono reati) – “cittadinanza”: ma se la cittadinanza si può ottenere dopo 5 anni, esattamente come la carta di soggiorno, la gradualità che si basa su quest’ultima non ha più senso, e viene compromessa la logica dell’intero sistema. La questione cittadinanza va inserita in un contesto che parta anzitutto da un corretto e organico governo dell’immigrazione. Se l’immigrazione è un dato della nostra realtà che nessuno può pensare di abolire, tuttavia non deve svolgersi senza una guida e senza direttrici di fondo. Governo Regionale dell’immigrazione significa, sul piano strutturale, puntare a politiche omogenee in sede UE, per la difficoltà di immaginare decisioni differenti per confini nazionali. Significa, nel nostro Abruzzo, coinvolgere in via continuativa tutte le realtà istituzionali interessate dal fenomeno: dalle Associazioni di volontariato, a vario titolo chiamate in causa, fino a tutti gli Enti Locali Territoriali. Gli strumenti di coordinamento delle varie competenze, centrali e periferiche, non mancano nelle leggi in vigore, attendono solo di essere compiutamente utilizzati. Governo Regionale dell’immigrazione significa anche – e ci si sta gia’ muovendo in questa direzione – risolvere problemi di vita quotidiana, che rendano la presenza fra di noi meno

inutilmente complicata: ridurre le code davanti agli sportelli, diminuire i tempi per ottenere

documenti essenziali, a cominciare dal rinnovo del permesso di soggiorno, garantire la disponibilità

di alloggi decorosi e la fruizione di servizi in condizioni di parità con gli italiani, migliorare l’approccio con la nostra realtà linguistica e istituzionale. Norme introdotte di recente nell’ordinamento puntano a favorire l’effettiva integrazione di ogni

singolo immigrato. Nel luglio 2009, nell’ambito del “pacchetto sicurezza”, il Parlamento ha previsto per la prima volta l’”accordo di integrazione” (inserendolo come art. 4 bis nel testo unico

sull’immigrazione). Esso consiste in questo: all’atto della richiesta di permesso di soggiorno – quale

condizione per il rilascio dello stesso – l’immigrato sottoscrive l’assunzione di impegni, articolati per crediti e per obiettivi, da onorare nel periodo di validità del permesso.

Governo Regionale dell’immigrazione significa,però,oltre che collegare la disciplina dei flussi a procedure meno burocratizzate, non agganciarsi esclusivamente agli indici del mercato del lavoro. Quello su  cui è necessario riprendere una riflessione non sommaria né demonizzante è tentare di orientare gli arrivi nelle varie Regioni italiane sulla base di consonanze culturali in senso lato proprio per permettere la migliore integrazione: non si tratta di promuovere impossibili preferenze etniche, ma di essere consapevoli che la convivenza riesce meglio quanto più numerosi sono gli elementi che si hanno in comune.

In quest’ottica, non dobbiamo temere di riaffermare la nostra identità culturale: anzi, dobbiamo

convincerci che l’immigrazione pone a rischio le società che non riescono a mantenere in modo

chiaro e deciso la propria. La rinuncia a riconoscere le proprie radici cristiane è stata, negli

ultimi anni, per l’Europa il sintomo più evidente della incapacità a manifestarla. Il dovere dell’identità è strettamente connesso a una seria politica regionale dell’immigrazione e impone una effettiva unità attorno ai principi che la connotano: una solidarietà di testa e di cuore fra coloro che la perseguono e un metodo caratterizzato da senso di realtà. Approcci buonistici e ottime intenzioni devono fare i conti con l’oggettività del reale, senza falsi miti, pie leggende o dannose edulcorazioni. Abbiamo la storica responsabilità di non scaricare la questione sulle future generazioni e, quindi, di non favorire la formazione di un consistente numero di “cittadini” culturalmente avulsi dal tessuto regionale. Questa responsabilità si coniuga con l’antica consapevolezza, di cui sono tragica riprova gli orrori del secolo scorso, che “il mondo è un purgatorio, che viene trasformato in inferno da coloro che vogliono farne un paradiso….”. Nostro compito è di rendere il mondo in cui la Provvidenza ci ha chiamato a vivere un po’ meno purgatorio senza, per insipienza, avvicinarlo all’inferno, la cui via – come tutti sanno – è lastricata di buone intenzioni…….



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