Cultura 07:00

La bicicletta rossa

Caro diario, perdonami per questo ristagno di corrispondenza, che non è trascuratezza, tu sai quanto mi sono care le tue pagine bianche, pronte ad accogliermi in silenzio come un vero amico in cerca di complice intesa di ricordi di emozioni, le sensazioni del presente o semplicemente le speranze e i sogni. Il tuo tacere che è più eloquente di un fiume di parole mi consente di rimanere eternamente infantile, beata nell’innocente egocentrismo, conducendomi nella via del divenire senza trascendere me stessa. Io mi racconto e tu ascolti clemente e pacifico, calmo di indulgenza come una madre. I vecchi saggi latini dicevano “nemo dat quod non habet” non si può dare ciò che non si possiede, ma tu non sei muto. Più di una volta ho sentito la tua voce interiore che mi invitava a lasciare le preoccupazioni per guardare dentro il mio animo. Un po’ ti assomiglio alla bicicletta rossa di mio padre. Ecco è ora che te ne parli anche perché quando torno a ripensarla mi sento leggera, agile e fresca come se un ossigeno purificante mi ringiovanisse liberandomi dagli affari. Quando il cielo è basso e buio come un tetto e il soffitto della mia stanza da letto sembra la volta di una prigione immagino di uscire all’aperto con la bicicletta rossa sognando il ritorno prodigioso della primavera che nel tempo non ha perduto il suo profumo. Se chiudo gli occhi in quei momenti di lieta nostalgia ho l’impressione di scorgere tra il verde del campo e l’azzurro del cielo l fiamma rossa e le faville di orzo selvatico schizzate via sotto i colpi delle ruote che slittano sul maggese con stupenda e agile rapidità. Mio padre la usava per recarsi a lavoro nei cantieri o per raggiungere nelle lunghe serate estive i canali del Fucino a pescare trote opulente e gamberi bruni fino a notte inoltrata. Io la dividevo con tutti i membri della famiglia essendo l’unico mezzo di locomozione a disposizione della casa. Era sempre stata di vernice rossa, ma una volta mio padre sperimentò su di essa una nuova tinta: la verniciò di verde salvia nella tonalità chiara del pastello e poi con la fiamma di una candela la maculò a macchia di leopardo. Durò poco quel nuovo ed insolito colore, tornò presto rosso fiammeggiante. Quando le gomme si foravano, e ciò accadeva spesso per le strade sconnesse e piene di rifiuti, con un rito sempre uguale mio padre toglieva la camera d’aria interna separandola dal copertone usando un temperino mozzo e curvo che portava sempre con se per i più svariati usi: sbucciare una mela, fare la punta ad una matita o dividere l’amo impigliato dal filo. A parte, poggiandola sul cemento di un basso pianerottolo, riempiva una bacinella d’acqua immergendo il cerchio di gomma fino alla fuoriuscita di piccole bollicine per individuare il foro. Quest’ultimo veniva poi riparato con un pezzo di gomma preso dai vecchi pneumatici che dopo essere stato tagliato in forma circolare con minuziosa precisione veniva fatto aderire sopra il buco con la colla del calzolaio. Ai miei occhi da bambina tale lavoro era pieno di magia per questo restavo a guardare con interesse dimenticando i giochi usuali alla mia età. Ho sempre pensato che la mia bicicletta non fosse un oggetto privo di vita, ma un essere speciale dotato di uno spirito libero e avventuriero come mio padre che consideravo u cavaliere leale e coraggioso, caro amico mio che ancora muovi il silenzio dell’assenza come un fantasma che non spaventa ma che disleva gli eventi. Il mistero dei ricordi della mia fanciullezza s’è disciolto nei venti delle stagioni trascorse, ma l’essenza è rimasta in me spensierata e lieta nella solitudine selvaggia delle cose spericolate. A perdifiato con l’affanno sul petto correvo sulle strade bianche tintinnanti di ghiaia o lungo i marciapiedi del parco cittadino con un velocipede fra terrestre e celeste: il solo capace di condurmi fuori paese. Il vento, splendido pettine, talvolta da dietro le spalle mi stringeva i capelli sulla fronte facendo alzare la mia chioma ai lati della testa fin su le palpebre. Ed io ansiosamente con le palme aperte cercavo di tirare i capelli all’indietro liberando gli occhi e riprendendo subito i manubri che parevano balenare del riflesso di un’anima luminosa e ardente. Talvolta, piccola com’ero, m’alzavo dal sellino e in piedi, dondolando di qua e di la, pendevo sopra come da alture incommensurabili fino a sentire nel cuore l’onda delle nubi riflesse nelle pozzanghere fresche d’acquazzoni. La bicicletta era per me il trionfo splendente di una giornata di sole, il guizzare delle saette dall’arco dell’orizzonte, la leggera carezza della nebbia, il solletico allegro delle matasse brune delle mie treccia sciolte sul collo. Alcune volte acceleravo l’andatura, pedalando con forza, altre volte tenendo i piedi fermi e rigidi poggiati sull’asta centrale correvo velocemente sulle discese ardite delle colline per scendere dalla bici e fermarmi a raccogliere i fiori selvatici a valle. Quando improvvisamente il cielo torbido cominciava a lampeggiare dai monti, non mi affrettavo a tornare a casa. Mi piaceva espormi al vento che talvolta spingeva di traverso la pioggia minuta e fredda. Sicché, bagnata come un pulcino, con l’odore della terra sulla veste di cotone leggero, al ritorno venivo sgridata dalla mamma infuriata. La fiamma della mia bicicletta ardeva sempre nei miei occhi anche quando a scuola, apparentemente attenta, seguivo la lezione e, se il maestro talvolta chiedeva a cosa stavo pensando, con riserbo dedicato abbassavo la testa evitando di rispondere come a proteggere un dolce segreto. Nelle giornate calde il pensiero della bicicletta era una tirannia giocosa, ma anche con il freddo il suo pensiero non mi allontanava. Il grande incanto terminava quando la bicicletta, riposta in cantina e dimenticata da tutti, non veniva più utilizzata. Ma io non mi rassegnavo e di nascosto la portavo fuori a rompere il ghiaccio delle pozzanghere con allegri scricchiolii. Non sempre ero da sola, talvolta facevo delle lunghe passeggiate con le amiche che a differenza di me possedevano bici proprie e moderne di fattura, ma non veloci cometa mia che era munita di ruote grandi e robuste. Spesso facevo salire dietro, facendola sedere sui ferri, mia sorella più piccola che dimenticava ogni tanto di tenere lontano i piedi e le caviglie dai raggi delle ruote ferendosi, e costringendomi a repentine fermate. Anche mio padre talvolta mi posava delicatamente e affettuosamente sul manubrio d’acciaio cromato, mentre i suoi occhi chiari ardevano di un celeste intensissimo e mi invitava a sostenermi tutta con il suo animo gentile. Cresciuta, non prendevo più la bicicletta che, vecchia e arrugginita, giaceva nel cortile retrostante casa, con le ruote incatenate dai lacci delle erbe alte tra i panni stesi ad asciugare all’aria e il fondo umido del terreno. Una vecchia reliquia abbandonata al tempo inclemente. Mio padre era morto, lasciandomi l’angoscia come compagna per molti lunghi anni. Poi il dolore si era addolcito nella rassegnata consapevolezza che coloro che ci amano continuano a vivere nella nostra memoria più profonda. “È preferibile”, mi ripetevo spesso parafrasando un aforisma di Lord Tennyson “l’aver amato e aver perso l’amore al non aver amato affatto”. Spesso tornavo a rivisitare col pensiero i momenti felici della mia infanzia e con essi riaffiorava la bicicletta rossa cimelio di scorribande felici, di partenze improvvise, di ritorni senza preavvisi, di sogni rubati alla quotidianità, di complici fughe tra amici e poi di laceranti addii sulla via dell’esistenza. Com’è simile la vita: piccola cosa nelle mani dell’ignoto destino. Ecco, caro diario, vorrei che tu conservassi la memoria della mia storia semplicemente con queste brevi note, pagine sparse sulla trama dei giorni, dei mesi, degli anni. Chissà che non torni a rileggerti per avere ancora e sempre il coraggio di salire sulla bicicletta rossa e lasciando il chiuso correre verso la campagna. Si, basterebbero pochi minuti da dedicare a decifrare le tue parole con purezza di intenzioni. La bicicletta, strana compagna di giochi, cavallo a pedali, macchina così preziosa da essere sognata con un’impazienza ostinata quasi collerica, resterà per sempre nel mio cuore grazie a te che non ti stancherai mai di raccontarmi delle mille strade che ho percorso tra i fiori delle siepi, i canti degli uccelli, il turchese dell’aria e il verde dei prati. Non mi farai pensare alla fatica che nelle salite inerpicate mi rese stanca ma solo alla spensieratezza che mi rese felice. Tutto ciò perché io vada sempre in labore fructus, nella fatica i frutti dell’amore.

 

Ora ti saluto

 

con profondo affetto

 

arrivederci

 

dalla tua amica.

 

Oddi Maria Assunta 


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